I MENDICANTI -4-
un racconto di Paolo Rocchigiani
Stretto nel suo spesso grembiule di cuoio, Peppiniello era concentrato su un paio di scarpe che stava tentando di riparare con le solite alterne fortune. Il robusto ragazzone, curvo su se stesso e a bocca aperta per prendere la mira, cercava di inserire lo spago cerato nel grosso ago ricurvo che teneva tra l’indice e il pollice in una morsa tutt’altro che ferrea.
Nella penombra della bottega, Mastro Valuzzo camminava avanti e indietro agitato e immerso nei suoi avvolgenti pensieri. Ad ogni nuovo passaggio faceva ombra al suo garzone da poco nominato apprendista. Allo stesso tempo, lanciando acute e penetranti occhiate di sbieco, ne controllava l’operato non mancando di guidarne le azioni con improvvisi e plateali schiarimenti della voce.
Non ultima tra le sue preoccupazioni, forse anche perché incombente e realmente di pancia, si tormentava chiedendosi che cosa avrebbero mangiato quella sera. Visto il difficile momento non era certo una preoccupazione da poco. Tra un mugugno e una imprecazione condita da sguardo e pugno rivolti verso il cielo, alla fine si avvicinò risoluto a Peppiniello.
Focalizzandosi totalmente sul lavoro del ragazzo si lisciò la barba corta sul mento prominente e annuendo si sporse in avanti per vedere meglio: “Bravo Peppinié, un ottimo lavoro di schifo! Così le hai assassinate ste scarpe, le suole sono inutilizzabili. E che cavolo, il cuoio mica cresce sugli alberi, lo sai!”
Forse il passaggio ad apprendista era stato prematuro.
“Eh no Maestro! Stavolta mi sembrava di averci azzeccato. Ma dove sbaglio, dove?” Il ragazzo si abbandonò scoraggiato sullo sgabello e gettò a terra le suole quasi ferendosi col grosso ago.
Il Maestro, svuotandosi i polmoni, più sconsolato che arrabbiato, le vide lì a terra tristi, testimoni dell’ennesimo fallimento ed inermi corpi del delitto. Ma questa volta potevano significare qualcosa di diverso e la soluzione ad uno dei suoi tanti problemi si palesò con una epifania. Un avido sorriso si spalancò allora sul suo volto illuminandolo grottescamente. Poi cercò con lo sguardo appoggio in quello di Peppiniello che dapprima non comprese, ma poi anch’esso sorrise in modo ebete e complice intuendo ed abbracciando la miserabile idea del suo mentore. D’incanto aveva trovato l’ingrediente da aggiungere al brodo, in realtà mera acqua calda e niente più, che avrebbero avuto per cena. Purtroppo i tempi non erano certo dei migliori, bisognava stringere la cinta, sempre che se ne fosse posseduta una, ma almeno il problema della cena sembrava essere risolto.
A causa del suo variegato carattere in cui spiccava una gagliarda e combattiva fierezza, Mastro Valuzzo aveva avuto molte multe dalla Gilda Dei Calzolai e innumerevoli battibecchi con quella maggiore delle Corporazioni. L’ultima goccia era stato l’obbligo di aprire anche di domenica per far fronte alle esigenze dei notabili dei vari colori. Questa ordinanza senza appello lo aveva reso furibondo e lanciato in una furiosa opposizione purtroppo senza adepti e quindi fallimentare. Messo alle strette, per conservare la bottega e un tetto per i disgraziati della comune, aveva contratto un debito importante con il noto banchiere Ludovico Strozzi. Il come riuscire a saldare questo debito occupava la maggior parte dei suoi pensieri. Bussarono alla porta con grande veemenza.