Attacco alla colonna

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ATTACCO ALLA COLONNA

un racconto di Paolo Rocchigiani

 

Il Lord comandante si guardò intorno. I pochi uomini che gli erano rimasti avevano ancora in pugno le loro armi. Al riparo tra gli alberi, silenziosi e cupi, fissavano la sua alta figura al centro in mezzo a loro, in attesa di un gesto, di un ordine ancora. Gli orchi, veloci e letali, si erano abbattuti sulla colonna militare senza alcun segno di preavviso seminando panico e mietendo vittime. Il loro primo assalto fu devastante.

La colonna viaggiava lenta e disciplinata verso Forte Largavista, la roccaforte più orientale della cintura difensiva delle marche ad est dei ducati; si muoveva sinuosa lungo la strada consolare nei pressi della cittadina mineraria di Bosternung quando i due fianchi furono attaccati contemporaneamente. Gli orchi guerrieri brandivano armi del metallo nero delle terre del caos, pesanti e contorte erano ricoperte, come i corpi dei loro padroni, di simboli disegnati col sangue, inquietanti e incomprensibili ad occhi non iniziati.

Dapprima una improvvisa pioggia di frecce, poi rapidi e furiosi i semiumani erano balzati fuori dalla vegetazione per riversarsi sui soldati in marcia. L’attesa li aveva resi incontenibili, folli all’idea del sangue da versare, eppure, incredibilmente disciplinati,  avevano chiaro l’obiettivo e come raggiungerlo. I primi bersagli furono i cavalieri e i cavalli alla testa e nelle retrovie del convoglio militare. La loro furia non fece distinzione tra umani e animali e molti cavalieri furono abbattuti stringendo ancora le briglie dei propri destrieri senza aver potuto opporre la minima resistenza.

I soldati nel mezzo, ancora in preda agli effetti dell’attacco a sorpresa, si divisero istintivamente per respingere gli aggressori, accendendo così più focolai di un disperato corpo a corpo. Il caos generato e l’incredulità di quello che accadeva rallentavano la percezione degli eventi per gli uomini che, in pochi secondi, si ritrovarono dal marciare stancamente a causa dell’ennesimo trasferimento al combattere ferocemente per la propria vita.

Nel mezzo della battaglia il comandante si rialzò sguainando la spada dopo che il suo cavallo, colpito a morte, lo aveva disarcionato scagliandolo pesantemente a terra. Roteando l’arma barcollò dopo che l’armatura sul petto lo aveva salvato da un fendente al bersaglio grosso tirato di rimessa dal suo assalitore, ma non cedette di un centimetro. L’orco che lo fronteggiava si preparò al nuovo attacco, ma mentre caricava il colpo fu ingaggiato da due soldati e con loro risucchiato in uno scontro più ampio.

Lord Emmanuel Drichter, del casato del duca elettore dell’Ostunar, non era certo un uomo avvezzo alle comodità e alle diatribe dialettiche di corte. Seppur ormai avanti con l’età, era certamente ancora molto pericoloso e i suoi occhi lo indicavano chiaramente. Senza battere ciglio dimenticò il proprio avversario e si sistemò l’elmo.

Muovendosi lento e sicuro nel mezzo della frenesia del campo di battaglia, rimase presente a se stesso e con lucidità cominciò ad impartire ordini. Gridava nel suo accento tipico dell’ovest dell’Impero. ”Serrate i ranghi!”, “Restate uniti”, ma la sua voce si perdeva nel caos generato da uomini e mostri. Eliminato il pericolo dei cavalieri, l’orrore si impadronì dei fanti con meno anni di servizio.

Vennero fuori dagli alberi tre enormi orchi che roteavano armi gigantesche. Il più grosso indossava un elmo color ebano con due mastodontiche corna ripiegate in giù. Di fattura straordinaria, seppure più contorto e oscuro di quanto il migliore forgiatore orco avesse anche lontanamente osato fantasticare, gli nascondeva quasi interamente il volto fatta eccezione per la bocca spalancata oltremisura in un ringhio terrificante. Coperti di pezzi di armature umane riadattate grottescamente alla loro impressionante mole, si lanciarono con lunghi e pesanti balzi nella mischia falciando qualsiasi cosa si ponesse loro dinanzi. Ai loro fianchi penzolavano teschi e teste mummificate, bottino di vecchie vittorie. Orchi e uomini morirono in quella disumana dimostrazione di furia e potenza.

Senza fermare la loro corsa i tre tornarono a scomparire nella vegetazione dopo aver generato ulteriore scompiglio. Il cupo suono di un corno risuonò più volte e anche gli orchi guerrieri si ritirarono rapidi così come erano arrivati.

Nell’impeto della battaglia molti soldati, accecati dall’ira e dalla voglia di vendetta, intravedendo una facile rivalsa, tentarono di inseguirli, ma furono investiti da un nuvolo di frecce nere lanciate da file organizzate di goblin. Caddero a terra i corpi di molti valorosi mentre l’aria veniva pervasa dal sibilo di un nuovo lancio che si abbatté ancora sui difensori.

Pochi attimi di un silenzio surreale e finalmente gli ordini del comandante echeggiarono potenti nella radura e le fila andarono serrandosi. La macchina bellica messa a punto dall’addestramento dell’Impero cominciò a muoversi grazie ai suoi professionisti. Gli scudi si alzarono come un solo uomo rendendo inefficace il nuovo scoccare di frecce. Passi militari e rumori di armature facevano da sottofondo a scene di corpi mutilati e guerrieri agonizzanti. Le perdite erano state pesantissime, bisognava agire in fretta.

Lord Drichter era caduto nella più classica delle imboscate che negli anni aveva studiato e temuto. Furioso si malediceva, ma gli ultimi dispacci non davano avvisaglie della presenza di forze ostili in quella zona e la sua avanguardia aveva lasciato segnali di via libera. Così tanti pelleverde e senza alcun segno di preavviso. Sapeva che sarebbero tornati per finirli. Non erano lì per razziare qualche villaggio, erano chiaramente lì per loro, li avevano attesi pazienti e ora volevano annientarli.

Aveva perso tutti i cavalieri e quasi tutti i fanti senza poter far nulla per impedirlo, ma ora doveva pensare a uscire da quella situazione, doveva reagire. Spingendo, strattonando e gridando a perdifiato, riuscì a organizzare una linea di difesa proprio mentre un secondo assalto colpì nuovamente i soldati dell’Impero. L’attacco frontale era capeggiato dai tre enormi orchi.

Ora organizzati, i balestrieri colpirono con precisione per poi sguainare la spada e proteggere i fianchi della formazione difensiva, gli alabardieri protrassero le armi in avanti creando un muro di morte, l’odore del sangue riempiva l’aria circostante. La linea tenne al pauroso impatto della nuova carica e i soldati riuscirono ad abbattere uno dei tre, ma gli orchi guerrieri, furiosi della perdita, si riversarono sui valorosi umani come un’onda di lame. Uomini e orchi lottarono ancora per la vita. La situazione era disperata quando il comandante ordinò la ritirata verso il bosco a ovest. Quel che rimaneva delle truppe era in rotta.

Brandendo la spada in una mano e lo stendardo imperiale raccolto da terra grondante sangue nell’altra, si inoltrò nella vegetazione fermandosi per sorreggere e trascinare quanti più poteva. Gli orchi non li inseguirono, ma le loro urla di vittoria gelarono il sangue dei sopravvissuti mentre correvano a perdifiato seguendo il loro comandante. Quasi esausto si fermò. Raccolse accanto a sé quanti lo avevano seguito. Senza parlare i superstiti cercarono di raccogliere le forze ansimando a bocca aperta. Bisognava avvisare il comando.

Questa era la priorità. Una forza di orchi simile significava che il Caos si preparava a qualcosa di grosso in quella regione. Così maledettamente vicino alla zona interna. Bisognava proteggere l’Impero e i suoi abitanti. Guardando la sua lama come se nel suo freddo acciaio potesse intravedere una via d’uscita, si scosse per un attimo e istintivamente richiamò alla mente le parole di attivazione della runa dipinta sul suo braccio. Le salmodiò fredde, senza intonazione così come era stato addestrato a fare e questa illuminò i suoi contorni per un istante. Il bosco intorno sussultò per il fragore di un albero abbattuto da una gigantesca ascia. Erano arrivati.

Il Lord comandante si guardò intorno. I pochi uomini che gli erano rimasti brandivano ancora le loro armi. Al riparo tra gli alberi, silenziosi e cupi fissavano la sua alta figura al centro in mezzo a loro, in attesa di un gesto, di un ordine ancora. Senza più speranze i loro sguardi si cercarono per darsi forza reciproca.

Allora lo stendardo dell’Impero fu innalzato e gli uomini si lanciarono sul nemico per vendicare i compagni caduti, per la loro patria, per combattere il caos a qualsiasi costo. Le loro urla disperate echeggiarono tremende nell’aria intorno.

Quando l’assalto si concluse, sul terreno giacevano molti orchi, ma anche tutti i soldati. Calpestando i cadaveri con disprezzo il Capoguerra si fece largo. Da sotto il suo elmo color ebano un ghigno di soddisfazione gli segnò il volto. Raccolse da terra lo stendardo dell’Impero. Lo mostrò ai suoi eccitati guerrieri. Lo strappò con violenza riducendolo in brandelli. Poi urlò verso di loro e questi si lanciarono alla raccolta dei loro macabri trofei di guerra.

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Paolo Rocchigiani

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