IL MERCATINO DEL LIBRO
un racconto di Paolo Rocchigiani
Da sempre il mercatino del libro esercitava su di me un fascino irresistibile. Appena seppi che le bancarelle si stavano radunando nella solita piccola piazza, non potei fare a meno di andare a curiosare. Ero sempre alla ricerca di qualcosa di insolito e di molto vecchio da leggere e quella volta avevo ottime sensazioni dopo i recenti fiaschi. In un mercatino del genere il segreto è semplice: bisogna ficcanasare tra gli articoli della bancarella più brutta e più fatiscente possibile. Lì non rimarrete mai delusi. Inutile puntare sulle bancarelle infiocchettate e piene di colori, lì si trovano per lo più libri per bambini o edizioni fallate di capolavori universalmente riconosciuti. Tutto troppo già visto.
Quella che puntai era la madre di tutte le bancarelle più scrause mai viste nei peggiori raduni della conoscenza sulla terra: in pratica si trattava di tre cassette della frutta riparate malamente, ricoperte in parte di muffa e posate, direi in realtà buttate a terra, con la parti superiori rialzate grazie a pietre irregolari messe sotto a fare spessore.
Il solo sbirciare tra i libri in esse contenute sembrava un’operazione degna di un avventuroso archeologo. Quel fascino della ricerca fu però presto disgregato dalla delusione del ritrovamento dei soliti romanzetti rosa e di qualche libraccio di ricette improbabili. Al mio disappunto il vecchio venditore seduto a terra e quasi disinteressato ai suoi stessi articoli, fece spallucce tirando dalla nera pipa che teneva nella mano sinistra.
Buttando fumo in aria si lisciò la barba bianca con l’altra mano libera e nodosa vista l’età molto avanzata. Con molta calma si mosse per rivolgersi verso di me. Mi osservò per qualche istante e poi con la pipa mi indicò una delle tre cassette. Mi colpì come era gialla la sua barba vicino alla bocca.
Avevo tempo da perdere e così decisi di dare un’ultima ravanata prima di cercare fortuna altrove. Scostai un volume che quasi si polverizzò al mio tocco prima di imbattermi in altri terribili opere rosa e la mia pazienza decisamente colò a picco, ma mentre realizzavo di cambiare zona di caccia, un volumetto dalla copertina nera attirò la mia attenzione mettendosi in mostra tra gli anonimi compagni. Lo presi e subito al tatto mi sembrò solido, beh almeno non si sarebbe dissolto sfogliandone le pagine. Un ottimo inizio. Lo sfogliai comunque delicatamente. Era scritto a mano e incredibilmente in calligrafia leggibile.
Ero già quasi conquistato. Non c’erano titoli, dediche, doveva trattarsi di un diario, magari un saggio di un sociologo alle prime armi o chissà quale affascinante resoconto di un fatto storico importante, ma ad occhio non riuscivo a dargli una collocazione temporale. Sfoglia ancora per vedere se mi fosse balzata agli occhi qualche data, ma non mi colpì nulla. Guardando di traverso verso il vecchio venditore agitai il volumetto. Mi rispose facendo cinque con le dita della mano sinistra. Pure super economico, era mio. Pagai e me ne andai i fretta per soddisfare la mia curiosità di lettore. Cominciai a leggere.
“Perché l’agenda prendesse forma era necessario cominciare a destrutturare la società così come si era delineata. Abbattere e far disprezzare ciò che ormai era considerato vecchio e sorpassato, quindi farlo dimenticare e poi ricostruire un nuovo presente. A questo doveva mirare la nostra incessante opera. Avremmo avuto tutto il tempo di cui avevamo bisogno, dovevamo solo restare ben nascosti. Lavorare nell’ombra permette di essere al sicuro e di dettare, non visti, e quindi senza intralci, i tempi per i propri scopi.
Solo la fretta era nostra nemica e, lasciarci guidare da lei, ci avrebbe fatto solo compiere passi falsi irrimediabili. Un cambiamento improvviso infatti avrebbe destato mille forme di resistenza difficili da affrontare e dagli sviluppi imprevedibili, invece tante microscopiche variazioni, tante oscillazione tra il bianco e il nero ben presentate all’opinione pubblica, e sapientemente diluite nel corso del tempo sfruttando periodi più o meno favorevoli o maturi, sarebbero passate inosservate e anzi viste dai più come auspicabili nel nome del progresso. Progresso. Che concetto geniale. Mi fa sempre uno strano effetto sentire questa parola dal momento che l’ho inventata io, nella sua accezione moderna almeno. Più ci penso e più sono convinto della maestosità del suo ruolo nel progetto: sarebbe stata sempre la locomotiva del nostro lungo ed eterogeneo convoglio del mondo nuovo, il portabandiera del cambiamento e simbolo di un cieco proselitismo sfociante in un credo zelante.
Dovevamo solo dare un piccolo aiuto spargendo il fumo dell’assenzio per contribuire ad assopire le coscienze e continuare indisturbati a tessere la nostra ragnatela. Come test di controllo utile anche a saggiare i tempi, di tanto in tanto facevamo trapelare un’idea eccessivamente strampalata ed enormemente disturbante per valutare le reazioni delle masse. Mentre l’idea deflagrava dividendo e preparando le menti ad eventualità assurde, cambiamenti minori, ma propedeutici ad un futuro balzo in avanti nel nostro progetto, attecchivano facendo breccia nei cuori e nelle menti. L’obiettivo era quello di colpire ogni struttura della vita quotidiana: affetti, lavoro, economia, svago, religione, politica ecc.
Colpire, distruggere e ricostruire, facendo scomparire e dimenticare le macerie. Dovevamo rendere ogni individuo una monade, cioè una unità singola e autosufficiente spogliata dei suoi elementi costitutivi naturali e peculiari. Il bello è che ognuno li avrebbe rigettati di propria iniziativa isolando chiunque non si fosse adeguato. Sole e spaesate le persone avrebbero perso la propria vocazione sociale abbandonando ogni forma di pensiero critico e di crescita, di miglioramento dovuto ad un confronto diretto con altri esseri umani. Senza più capacità cognitive raffinate in un pensiero autonomo avremmo ottenuto una facile vittoria. Con pazienza infinita guardavamo solo avanti.
La prima struttura da colpire era l’autorità. Martellavamo le menti con concetti semplici e apparentemente di significato molto elevato. Subentravamo striscianti in concetti positivi stravolgendone il significato ma adottandone la forma e l’aspetto più gradito ai popoli. Il mio preferito era il concetto di uguaglianza. “Siamo tutti uguali” ripetemmo senza sosta per sgretolare la gerarchia naturale e cavalcammo il concetto per inventare una nuova forma di governo facendo credere che l’autorità veniva spostata da pochi indegni privilegiati al degno popolo sovrano. Popolo che, dall’alto della sua saggezza, avrebbe rimesso il proprio potere nelle mani di suoi rappresentanti scelti tra i più degni di fiducia. Lo usammo per far sì che genitori e figli fossero messi sullo stesso piano, creammo non più genitori ma amici e distruggemmo il concetto di autorità e regole.
Inventammo il motto vietato vietare. Negare fino allo sfinimento, confondere i significati delle parole e colpire chi non si conformava era nostro compito incessante. Coltivammo un ateismo diffuso sfociante in un materialismo assoluto.”
CONTINUA