AUREA FORTUNA
un racconto di Paolo Rocchigiani
Il mio nome è Fiero Liborio e come mi ritrovai ai ceppi della galea Aurea Fortuna di Venezia è racconto troppo lungo e difficile da credere e da affrontare ora e in questa sede. Si sappia solo però, e il Signore me ne è testimone, che le vicende che mi videro coinvolto mio malgrado furono il risultato di in una incredibile e mirabolante miscela di tristi vicende, terribili malintesi e sconcertanti fraintendimenti. Questo potrebbe far pensare che qualsiasi altro avvenimento successivo non possa che destare meno interesse, ma ciò che mi accadde da quel momento in poi fu ancora più straordinario se possibile.
Cinque anni. Questa era la pena che avrei scontato ai ceppi veneziani e certamente peggior sorte mi sarebbe capitata se a giudicare la mia storia fosse stato un tribunale ecclesiastico anziché uno civile, in qual caso, molto probabilmente, uno dei ligi e zelanti inquisitori sotto il cui giudizio sarei dovuto passare non avrebbe avuto difficoltà a far di me il protagonista principale di un rogo purificatore.
Fortunatamente a quel tempo a Venezia la Santa Inquisizione non aveva mano libera come nei regni e potentati Cristiani circostanti. I primi giorni sulla galea non mi fecero però apprezzare a pieno questa fortuna che avevo avuto, credevo infatti fermamente che il rogo sarebbe stato destino ben più auspicabile rispetto alla infernale condizione di permanenza che si andava delineando sull’imbarcazione.
Gli ufficiali giudiziari mi consegnarono all’autorità portuale che mi affidò a sua volta all’equipaggio della mia prigione galleggiante. Remissivo, non potevo far altro che passare da una custodia all’altra. La prima cosa che ricordo fu il nauseante fetore che mi accolse mentre salivo a bordo. Capivo perché si diceva che anche di notte, se sotto vento, era possibile indovinare l’avvicinarsi di una galea. Trattenni a stento un forte conato di vomito e quasi persi l’equilibrio.
Una volta a bordo di quei sessanta metri di fasciame ingrassato, mi fu consegnato solo un paio di brache che costituivano l’intero mio abbigliamento e fui costretto a cambiarmi sul ponte davanti a tutti i duecento rematori, all’equipaggio e ai tanti fanti di marina. Non rividi mai più i vestiti che indossavo da uomo libero abituato a vivere sulla terraferma e capii subito di aver perso ogni forma di dignità.
Strattonandomi, due marinai mi consegnarono al cerusico barbiero di bordo che mi rasò con la stessa tecnica usata dai pastori della mia terra per tosare le loro pecore. Istintivamente provai a opporre una sorta di resistenza, ma imparai subito a conservare le energie con il suono dello scudiscio che mi fischiava ancora nelle orecchie. Mentre venivo legato alla catena della mia panca e mi veniva assegnato il remo che avrei condiviso con altri quattro sventurati, vidi alcuni di loro che svuotavano senza la minima vergogna i propri intestini sul ponte proprio come avrebbero fatto degli animali.
Quella sarebbe stata la mia nuova normalità in un girone infernale in cui prendevo posto incatenato e stretto in mezzo a due disgraziati par mio. Cercavo di non perdere il controllo e naufragare perdendomi nella disperazione quando, come a sugellare quella mia iniziazione da galeotto, mi appesero al collo un tappo di sughero.
Che cosa avrei dovuto farci con quel tappo? Un tizio compassionevole dal remo opposto al mio, indovinando le mie perplessità e il mio smarrimento, mimò il gesto come di morderlo. Ne avrei capito l’uso molto presto. Da quel momento sarei sceso dalla Aurea Fortuna per la prima volta dopo tre anni.
La partenza era imminente, sentivo da poppa gli ordini dei gentiluomini del capitano gridati con l’inflessione veneziana all’equipaggio. L’aguzzino si avvicinò dalla mia parte e sprezzante si rivolse al compagno alla mia destra.
“Stinco di santo, fai vedere il mestiere al novellino.” Stinco di santo, tenendo gli occhi bassi con la voce appena udibile e monotona mi disse: “Fai quello che faccio io. ” Lo ringraziai cercando di presentarmi, ma non mi disse altro. Quello alla mia sinistra allora mi strattonò ringhiando che gli stavo rubando parte della panca che era di sua proprietà.
Tentò di mordermi la spalla così vicina alla sua bocca bavosa, ma riuscii a spostarmi appena in tempo. Quasi tentai una reazione, ma bastò solo lo sguardo dell’aguzzino a farmi desistere. Ribattezzai quello squilibrato come Cane Pazzo.
Squarciando l’aria la frusta dell’aguzzino corse veloce, i marinai sciamavano indaffarati sul ponte, i fischietti urlarono nella calda dell’estate veneziana e, agli ordini del capitano Vincenzo Brugiantino, l’Aurea Fortuna sciolse gli ormeggi e partì per la sua missione.
CONTINUA