LA LUNA ROSSA -3°parte-
un racconto di Paolo Rocchigiani
“La stella di Sirio brilla anche di giorno, presagio di sventura essa è. Porta la morte, il sonno o il potere, rivela arcane e nascoste verità, l’avvento del nuovo o il vecchio che torna… e bla, bla, bla: adoro davvero gli esseri umani! Hanno una filastrocca, un racconto e persino una canzone per tutto, in particolar modo per quello che non capiscono, ignorando che, soprattutto in questo caso, riconoscere i segni ed interpretarli correttamente darebbe loro l’allettante ed inebriante potere di incidere fortemente sul movimento della Ruota del Tempo che, come sua intrinseca natura, non fa altro che girare, girare senza sosta al fine di scandire ed influenzare il corso di tutti gli eventi, di tutte le vite, non fermandosi mai e senza mai accusare la ben che minima esitazione…quanta inconsapevole ed orrenda ignoranza dentro una altrettanto ben o consapevole ed orrenda filastrocca… magari un racconto sarebbe andato meglio, uh, uh, uh… uhm, ma il sole è già alto ed io DEVO avere ciò che è giusto mio Padrone, come sancimmo con il Patto al nostro primo incontro: tu DEVI nutrirmi.”
La dolce, dolcissima voce di Sindana riecheggiò nella mente del lupumano dalla pelliccia nera che proprio in quel momento si stava svegliando. Un ebete sorriso gli si stampò sul grosso muso come ogni volta che la sua arma magica gli parlava; ancora mezzo assonnato, si rigirò goffamente nel letto troppo piccolo per la sua imponente stazza quando la vide lì accanto a sé, in parte nascosta sotto il suo cuscino, al sicuro nel proprio fodero illuminato da un fascio di luce filtrato dalla finestra della ben poco accogliente stanza affittata per pochi denari. Mostrando le zanne in un enorme sbadiglio, si preparò indossando l’armatura e gli altri paramenti. Una volta vestito e ben sveglio, estrasse la spada per lucidarne la lama perennemente affilata: Sindana, la splendida Sindana dalla lama bicolore blu notte-cielo stellato e dall’elsa forgiata in una minacciosa bocca di drago dorata spalancata in un ruggito che quasi si poteva percepire. Rapito, rimase a contemplare l’assurda bellezza delle minuscole stelle che, roteando in modo ipnotico, si specchiavano riflesse nei suoi occhi sempre più vicini. Staccandosi a fatica da quella immagine di migliaia di altre possibili realtà, finalmente la ripose nel fodero e, una volta assicurata al suo fianco grazie al resistente ma non degno logoro cinturone, con fierezza, uscì dalla camera a lunghi e larghi passi militari guidato dal suo stomaco brontolante. Arrivò al piano inferiore della locanda, nella sala comune. Guardandosi intorno per cercare facce conosciute, sembrò trovare ciò che stava cercando. Seduto ed intento a leggere un altro dei suoi libri, c’era il giovane Phanelion: un elfo calvo e mite, guidato da un grande e pericolosa sete di conoscenza che cercava di estinguere lontano da casa sua, la terra dei figli eletti dell’Ovest. Il lupumano fece per andare verso di lui.
-Karun, vieni siamo qui!- gridò un uomo in tunica gesticolando ampiamente e prendendolo di sorpresa.
Immaginando un pericolo, si girò bruscamente sobbalzando mentre l’istinto guidava la mano sull’elsa.
–Per tutti i diavoli Lune, magari te la facevo saltare davvero quella testaccia!- Rallentando i sensi e sbuffando si sedette rumorosamente al tavolo con l’elfo mentre apostrofava pesantemente l’uomo dal volto scarno e dagli occhi grandi che aveva attirato la sua attenzione.
-Calmo, calmo amico mio, i diavolo non c’entrano nulla, posso assicurartelo.- Lune si aggiustò la tunica, il suo sguardo sapeva mettere davvero a disagio, poi, grattandosi la testa, prese posto compostamente.
Phanelion alzò gli occhi dal suo libro e sorrise divertito soppesando prima uno e poi l’altro commensale.
-Piuttosto unisciti a noi, come tra l’altro hai già fatto, bene, e ordina pure da mangiare, offro io.
Prendendo più spazio possibile sulla panca condivisa con l’elfo, Karun digrignò le zanne in un sorriso famelico non facendosi ripetere l’invito due volte. Cercò l’oste e, appena quest’ultimo gli passò vicino, lo afferrò per le braccia alzandolo da terra senza il minimo sforzo, seppure l’uomo fosse della stazza tipica di chi ha a che fare per lavoro col cibo e deve garantirne la qualità “costringendosi” spesso all’assaggio. Il poveretto lasciò cadere il vassoio che teneva in mano mentre, inorridito e improvvisamente bianco come un lenzuolo fresco di bucato, tentò di lanciare un urlo, ma il grosso lupumano glielo ricacciò in gola ringhiandogli contro in modo alquanto animalesco. Dopo tutto la sua razza non nascondeva certamente la propria inclinazione a far emergere il proprio distintivo aspetto ferale: a studiarla in base ad un’analisi superficiale, essa poteva risultare un ardito incrocio tra il lupo e l’essere umano, non certamente un licantropo, indigesto e reietto avversario per entrambe le stirpe, o un fantomatico e ancora ricercato anello mancante; in seconda battuta, ampliando lo spettro dell’analisi, il risultato giungeva inequivocabile: ci si trovava di fronte alla razza di un potente Impero di conquistatori, l’Impero Kocis; in sintesi dunque una temibile macchina da guerra, grossa, potente, senza scrupoli e nel caso di Karun, dato anche il raro pelo nero che lo contraddistingueva in modo assolutamente sui generis tra la sua gente, un avventuriero poco raccomandabile, imprevedibile e dalla ragguardevole stazza di un lupo dalle fattezza umane alto più di due metri.
-Silenzio, schiavo! Porta a me e ai miei compagni il cibo migliore che puoi preparare, altrimenti sarai la mia portata principale… ci siamo capiti? E sbrigati omuncolo, la pazienza non è certo la mia dote migliore!
Non potendo fiatare e riuscendo solo ad annuire energicamente, una volta rilasciato “delicatamente” sulle dure travi del pavimento della sua locanda, l’oste si precipitò in cucina travolgendo un tavolo ed inciampando in un paio di sedie. La fragorosa risata di Karun pervase la grande sala inseguendolo fin dentro il suo piccolo regno culinario.
-Mi stupisco che tu sia ancora vivo con la tua arrogante maleducazione- il tono di Phanelion era distaccato e le parole pronunciate con calma esemplare.
-Che spasso… ah ah ah…-quasi rompeva il tavolo battendoci i pugni sopra divertito- oh, vivo e vegeto direi, mio giovane Phanelion, io faccio quello che mi pare e poi con questa mia arrogante maleducazione, -lo disse scimmiottando l’espressione di cortese sdegno dell’elfo- mi prendo tutto ciò che voglio.- La mano accarezzava l’elsa di Sindana mentre il giovane elfo, apparentemente niente affatto turbato, tornava alla sua lettura.
-Mah, che ne sai, magari l’oste potrebbe avere un sapore migliore di quello che ho mangiato qui ieri sera!- Lune fece spallucce e poi attirò l’attenzione dei commensali, riuscendo addirittura a far chiudere il proprio libro a Phanelion, lanciandosi in una ardita disquisizione sull’uso di alcuni singolari ed arcani simboli di potere che diceva di aver scoperto casualmente. Ben presto un titubante garzone arrivò al tavolo per servire il pasto sotto l’occhio vigile di un preoccupato e ben trincerato oste.